February/Shkurt 1951

 

L’EREDITÀ DEL POETA

Roma – 1 Febbraio, 1951

Il 30 dicembre 1940 chiudeva per sempre gli occhi a Scutari il Poeta della gente d’Albania, Giorgio Fishta. Già negli ultimi anni agli occhi ammirati dei suoi connazionali un alone di gloria dirconfondeva di una luce immortale la sua bella testa canuta.

E la stessa luce, soffusa di serena melanconia, brillava nei suoi occhi rimasti giovanili nella vivacità dello sguardo. Chi gli era familiare e ne conosceva ogni tratto e ogni atteggiamento del volto e della persona, potè notare in lui nell’ultima fase della sua vita come una vaga inquietudine che gli agitarre l’animo e pareva che egli soffrisse nello sforzo di soffocarla e tenerla chiusa in sè ermeticamente. Forse presagiva i tristi eventi a cui andava incontro la patria tanto amata e sublimata nel suo canto. Morì portando con sè nella tomba il segreto delle sue estreme tristezze e fortunatmente in tempo per non assistere allo scempio degli altri ideali da lui propugnati e celebrati: la gioconda vivificatrice fiamma del focolare domestico e la fratellanza degli Albanesi fondatea sulle tradizioni fiorite dal sangue e dalla lingua comuni.

Nel trentesimo e ultimo canto del suo poema Lahuta e Malsis (Il liuto delle montagne) il Poeta usciva in un appasionato inno augurale new quale chiedeva all’Onnipotente destini migliori per la nazione schipetara giunta alla libertà dopo secoli di sofferenza ed aspre lotte sostenute contro soverchianti forze. Il suo voto non fu esaudito. Le forze oscure, ch’Egli stigmatizzò nei suoi versi, le forze uscite dalle remote steppe asiatiche (Po Moskovi – ju theft’ hovi!), dopo la sua morte, ebbero il sopravvento e s’iniziò per lo sventurato paese un’altra era di oppressione che fece impallidire nel ricordo le pur dolorose vicende del passato. Un nuovo genere di schiavitù, una dominazione ottenuta con mezzi di nuova raffinata ed efferrata crudeltà prostrò la piccola nazione.

Non con’larmi stavolta fu invasa l’Albania nè con l’irrompere impetuoso di soldataglie straniere.

Forse all’armi degli aggressori i petti albanese avezzi a far scudo al suolo della patria avrebbero opposto un inespugnabile baluardo; le inaccessibili chiostre dei monti avrebbero ostacoloato la marcia devastatrice. Non riuscirono vincitrici dalla tremenda prova le stirpi albanese nel 1878, unite dal solenne vincolo della tradizionale <besa>, contro l’assalto proditorio dei Montenegrini e dei Serbi aizzati e assistiti dalla Russia e contro il verdetto del Congresso di Berlino? Questa lotta combattuta senza calcolare il numero dei nemici e sfidando la potenza dei loro sostenitori è oggetto dei canti della Lahuta, e gli eroi che non disperarono delle fortune della patria ma fecero affidamento sulle virtù e sul nudo coraggio della genta schipetara rimangono scolpiti per l’eternità nei mirabili versi di quei canti.

Invece stavolta la diabolica abilità dello straniero usò strani e sconosciuti strumenti d’invasione. Instillò nell’animo di una schiera di giovani schipetari una inumana dottrina, somministrò loro un micidiale farmaco che distrusse in essi ogni virtù atavica e ogni ricordo degli insegnamenti uditi sulla soglia delle loro case paterne. E il fratello, vaneggiando nella illusione di utopistici paradisi sociali, brandì l’arma contro il fratello e ne versò il sangue sul focolare, spegnendo con esso la fiamma, simbolo della comunanza di gioia e di dolore. Lo straniero, bisbigliando nell’ombra gli ordini nefandi e i perentorici incitamenti, dirigeva con gelida ferocia la strage. E il paese, difeso un tempo da Marash Utzi e da Oso Kuka e da Alì Pascià di Gussigne e da Abdyl Frasheri, immortalati dal Poeta, fu conquistato per conto dei nemici da una masnada di rinnegat è offerto in dono Harushës së Verit, All’Orsa del Settentrione.

Raminghi sulle dure vie di un esilio di cui non si prevede il termine, angosciati dalle condizioni della patria colpita nella carne e nello spirito dei suo figni della tortura e da la schiavitù rese anche più odiose dalla complicità di degenri Albanesi venduti allo straniero, noi figli d’Albania non abbiamo miglior modo di commemorare il Poeta nel decimo anniversario della sua scomparsa che quello di riaprire il poema e scorrere le sublimi pagine. Sangue e lacrime, grida di dolore, appelli disperati, fremiti e gemiti: la storia del nostro popolo fu ed è permeata di cupa sofferenza. Da questa sofferenza forse troppo grande per un piccolo popolo, da questo umano dolore soffocato nella nera, tenebra della schiavitù, materia del poema imperituro del Fishta, sentiremo ancora nella lettura dei suoi canti spiccare le nostre ardite speranze verso l’avvenire come le aquile che dai picchi delle nostre montagne coll’impeto delle ali poderose balzano verso le infinite altezze dei liberi cieli.

La speranze che brilla fra le lacrime silenziose di cui gronda la sua poesia: questa è l’eredità del Poeta.

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